giovedì 14 dicembre 2017

Di solito...

Di solito quando sto male tendo a scrivere, a sfogare su carta la mia tristezza cronica, la mia incapacità di essere incisiva, l’inconcretezza di tempi persi, di sguardi assenti, di emozioni volatilizzate. Di solito quando subisco qualche delusione e mi ritrovo preda di spasmi ingrati, mi rifugio nella carta, nelle storie degli altri, nelle vicissitudini di personaggi fantastici, inventati, che si trovano solo tra righe dimenticate. Di solito quando non riesco più a trovare la via, quando mi ritrovo a pensare di aver sbagliato tutto, di non aver compreso a fondo i miei errori, dove ho commesso un passo falso, mi precipito tra i fogli virtuali di questo spazio, che mi è sempre calzato bene, a dispetto di tutto. 
Se di solito funziona così, questa volta non va, non ingrana, non è sufficiente, questa volta non riesco a scrivere neanche una riga, perché farlo presuppone forza di volontà, non riesco neanche a capire cosa sto facendo della mia vita, figurarsi leggere un libro, dopo due righe ho perso qualsiasi tipo di concentrazione per fissare il vuoto del muro di fronte a me, o il mio riflesso in un finestrino appannato dalla pioggia, o nella finestra dove si acculuma la neve. E pensare di aggiornare questo blog un atto che al momento è quanto di più lontano ci sia. Ho provato effettivamente a scrivere una recensione, ma il foglio bianco, con solo il titolo e la citazione e la trama (di cui ho fatto copia e in colla) mi fissano con le loro pretese ingiustificate, la loro incapacità di comprendere il fatto che mi sento spenta, sfibrata, privata di qualsiasi idea guizzante. 
Perciò si, sto male, non capisco neanche cosa ci sia nella mia testa al momento e abbandonarmi a dell’ingiustificato crogiolamento nella polvere la scelta più saggia che ci sia. Almeno per me, almeno per oggi. 




venerdì 8 dicembre 2017

Ed era già troppo tardi

Una mano che vaga sulla schiena.
Cosce che strusciano sotto il tavolo.
Dita che involontariamente si sfiorano.
Brividi che devi nascondere.
Fissare un avambraccio piegato sullo schienale della tua sedia, mentre il suo sguardo fissa lo schermo. 
Poi guardarsi un attimo, sorridersi, gli occhi che si cercano. 
E pensare inevitabilmente di scappare, perché salvarsi è l'unica cosa che conta.



Ho perso, è l'unica cosa che posso riconoscere in questo baratro che è la mia vita. Ho riconosciuto i sintomi, sapevo quanto avrebbe fatto male, e li ho ignorati, pensando che prima o poi se ne sarebbe andato da solo. Ma è impossibile, anche quando dovrebbe essere passato il periodo di incubazione, anche quando ti saresti dovuta essere liberata di quel maledetto virus, ecco che questo ricompare, ti morde le viscere, ti induce a mettere ordine, a calpestare i tuoi sentimenti.  E cosa resta da fare?
Otto dicembre, il freddo brucia le ossa, ingloba il dolore, spreca le possibilità e ti lascia a terra con la solitudine che ti sgretola il cuore. E cosa resta? Niente solo i filamenti di quello che credevi possibile, che pensavi, osavi, osavi sperare. 
È così una lenta agonia che si dirama da quelle occhiate rubate, da quei tocchi brevi ma incandescenti, da quei momenti in cui ci guardiamo negli occhi, ci fissiamo con una certa intensità in cui il tempo sembra sospeso, cristallizzato. Ogni giorno una pugnalata, una risata isterica che risuona ad un passo, i gesti dibattuti, l’intenzione soppressa, la voglia inghiottita, insieme all’istinto di allungare la mano. E quel tempo che si allontana, la sensazione di aver perso la propria sanità mentale, i momenti in cui insieme contro il mondo, anche quello che sembra rubato dalla quotidianità. Scene che sono stampate nei tuoi occhi, che lì, di fronte a te, si consumano destinando all’oblio quella sensazione di bruciante attrazione. Perdere è fin troppo facile, quando ti aggrappi senza forze ad una vana speranza. Brucia con la scottatura del dolore mai suturato a dovere. Anche quando duole come una frattura nei giorni di pioggia. Mi blocco a guardare il fermo immagine dei nostri ricordi condivisi, delle nostre emozioni immaginate, di quello che avremmo potuto essere e non saremo mai. 
E allora non c'è molto da concludere, con le lacrime che scivolano, verso un istante che non ci appartiene più. Vederti, appannaggio di un'altra, di chi forse comprende più di me, forse è più di me, più intensa, più vera, più vicina, più bella, più aggraziata, più pronta a perdersi. 
Perché in fondo è sempre la stessa storia, e non è neppure tanto bella.