lunedì 12 dicembre 2016

D’un tratto in un sentiero instabile

Un anno fa avevo superato il colloquio, che ancora non lo sapevo, ma mi avrebbe cambiato la vita. Ricordo il viaggio di ritorno da Roma verso l’Irpinia, con le lacrime agli occhi, perché ero fermamente convinta che quel colloquio fosse andato uno schifo. A me non avevano fatto nessuna delle domande scabrose che avevano fatto agli altri. Il mio colloquio era andato liscio… fin troppo. “No a me quello non l’ha chiesto”, “No non mi ha fatto parlare in inglese”. E non so se sia stata la mia sparata iniziale “No ho scelto ingegneria biomedica perché in televisione avevo visto un servizio sull’occhio bionico e oddio lo volevo progettare anche io” o le risposte giuste a domande innocue, o l’intervento sulla cookie policy, ma quel colloquio, al contrario di qualsiasi previsione è andato bene. 
E ora sono a Torino, a imprecare in tutte le lingue del mondo contro excel, che filiamo e disfiamo come la tela di Penelope, con quel modello che viene incrementato a colpi di martello, con la precisione di un fabbro. E sono stanca, inizio ad esserlo dopo aver corso come una matta per tutto l’autunno, con la voglia a mille, felice di contribuire a quel pezzo di banca, entusiasta e attiva. Eppure mi sento inutile, sento che nonostante tutto non sia servito a niente. I problemi si moltiplicano, gli orari si allungano, le responsabilità aumentano esponenzialmente. E sono esausta, e stressata e salto su con niente, vado nel panico solo perché mi sono tagliata un dito ieri sera. Ero da sola e ho iniziato a pensare al peggio, senza possibilità di salvarmi. Mi sono calmata dopo un secolo, a forza di ripetermi che sarebbe andato tutto bene. Ed è questo a fregarmi, la paura irragionevole di non farcela, di fallire. Sono sempre sul chi vive per chi mi trova in difetto, per mie mancanze vere o presunte, in una irrazionale spirale che mi conduce alla follia. Come sempre, come sempre non so come uscirne. Anche se sono fondamentalmente serena, con un equilibrio che non avrei mai immaginato di costruirmi qui a Torino. Eppure finisco a percorrere sempre gli stessi sentieri instabili di paura e dubbio, e non so come uscirne. 





sabato 3 dicembre 2016

Quando pretendi che cresca l'erba voglio

La vita che consuma le ossa, genera istanti sospesi in mezzo alla tempesta, dimenticati dalle incongruenze che seminano dubbi. Generare l’empasse è un atto inconsapevole, ingestito nel mondo che sfinisce le più recondite possibilità, cede sotto i colpi della malasorte. 
Certe sere che arriva quel debilitante senso di nostalgia, quel pesante e ignobile vuoto a perdere, quella agghiacciante sensazione di nulla cosmico. L’insostenibile perdita di realtà virtuali che abbracciano la nostra stessa intensità. Perdo tutte le distanze, perdo il contatto con la realtà, dimentico l’inevitabile. 
Sto fissa in un punto, immobile, quanto incerta, debole quanto stanca, inafferrabile quanto esacerbata. Cerco conferme che non arrivano, abbracci che esistono solo nei miei sogni, desideri inespressi nella convoluzione della mia esistenza. Cerco energie perse, consumate nel vano tentativo di catturare desideri saltellanti. Cerco inevitabilmente altre vie di uscita, gesti che hanno altri significati, altre vite, altre esistenze. Pretendo attenzioni che non riceverò mai. 

lunedì 14 novembre 2016

Scheggia

Sopravvivere alle intemperie emotiva,
scivolare nel clamore della folla,
camminare sul filo del rasoio dell'umanità consumata,
cadere nello sproloquio di chi non afferra la razionalità,
precipitare nella consapevolezza delle schegge di idee,
isonorizzare l'anima alla pressione di quel doloroso palpito.

giovedì 6 ottobre 2016

Nel mezzo di Torino

Torino è una città meravigliosa, che mi ha conquistato fin dal primo momento in cui ho iniziato a camminare per le sue strade perpendicolari, i suoi viali lunghissimi, il nucleo centrale che si irradia verso l’esterno e le stazioni e si propaga fino al Lingotto e oltre, con quella pianura così diversa dalle mie amate colline. Dal grattacielo dove lavoro, si uno dei pochi che ci sono, accanto alla stazione di Porta Susa, sembra quasi di toccare quelle Alpi che cingono da est il capoluogo piemontese. C’è tanta aria frizzante, quel freddo che ti penetra dentro, quell’atmosfera da città europea che tanto si discosta dalla fissità dei Borghi medievali di provincia a cui sono abituata. Torino respira un multiculturalismo che si nutre anche di cibo, non solo il gianduiotto e la bagna cauda, ma la carne, quella Fassona che sembra fiorire ad ogni ristorante, i plin, gli agnolotti, il gelato e il bonet (che se vi piacciono i dolci liquorosi è un must have).
Mi sono innamorata di Torino, con quelle atmosfere da fin de siecle, le strade affollate, lo struscio lungo via Garibaldi della domenica pomeriggio, gli artisti di strada in piazza Castello, i negozi di lusso di via Roma e via Lagrange, quelle librerie meravigliose che ti sbucano da un angolo e le gelaterie. Poi adoro il mio quartiere e il mio monolocale, piccolo, funzionale, e incredibilmente comodo.
È il lavoro che mi sfinisce, che mi ruba tutte le energie e le ore di veglia, è il lavoro che risucchia ogni centimetro di vitalità che mi pervade. E non è per lamentarmi, io sono molto serena e soddisfatta. Il mio capo mi ha detto che ho raggiunto il mio primo obiettivo, il nostro commerciale ha avanzato l’ipotesi che mi merito una promozione, e mi ha anche detto che il nostro amministratore delegato sa chi sono. Il cliente si fida di me e del mio lavoro, tanto da coinvolgermi nelle decisioni, nelle riunioni, nei pranzi, nelle confidenze. Il team, eterogeneo e ricco, è estremamente divertente, anche se venato di un maschilismo irritante, è comunque formato da bravi ragazzi, con cui è facile lavorare. L’atmosfera è allegra e vivace, e mi sono già inserita nelle dinamiche, nelle prese in giro, nelle battute, nelle risate. Oggi sono andata a pranzo con soli interni, eppure mi fanno sentire così a mio agio, che non si sentono le divisioni da “ehi sei una consulente, addio, scompari, non posso parlare con te. Eppure la pesantezza degli orari sempre più tardi inizia a farsi sentire. Eh si che è con i progetti così sfidanti che si impara di più, è con questi progetti allucinanti che ci si forma nel mondo della consulenza. Eppure, a volte, vorrei solo avere più tempo da dedicare al blog.



giovedì 25 agosto 2016

Non mi abituerò mai a sentire la terra tremare

Una delle cose più terribili che abbia mai dovuto affrontare da sempre è il terremoto. È una delle cose che mi spaventa di più in assoluto, perché di fronte alla terra che inizia a tremare non possiamo fare nulla, se non metterci in salvo e osservare immobili i danni. Ed è incredibile ripensare al terrore cieco che mi ha catturato ogni volta che siamo stati investiti dal sisma. Quello del 97, quando ero solo una bimba di otto anni, sotto al banco di terza elementare, tra Marche e Umbria, Colfiorito distrutto da macerie e macerie, con i container rimasti lì per anni. Il 6 aprile 2009, quelle 3:35 che nel cuore della notte ci hanno fatto precipitare in strada, e dormire tutti nel lettone dei miei, con gli  occhi sbarrati e il mattino dopo l’esame di Fondamenti di Automatica, e chi se lo scorda, con gli amici abruzzesi trapiantati ad Ancona con gli occhi vacui e il terrore nel cuore, completamente impotenti. Lo guardo fisso al telegiornale, tantissime giovani vite spezzate, quella Casa dello Studente sventrata e irriconoscibile. E nel maggio del 2012 in Emilia, a pochi giorni dal mio compleanno, la terra sussulta, il cuore piange, tantissimi amici oltre confine della mia regione. E sempre ti assale quella paura cieca, la voglia di scappare, non sapere dove andare, ansia per quel mondo che sembra scomparire in un attimo, invaso dalle macerie e dal tremore.
Anni dopo e continuo a tremare. Tremo, lo faccio da giorni oramai, incapace di mettere a tacere la paura angosciante. Martedì notte ero a casa di amici a bere e ridere quando è iniziato a ballare tutto. Secondi interminabili, paura che ti attanaglia le viscere, le gambe che tremano anche dopo. 3:36 e tutto rapidamente cambia. Un attimo prima ridi, un attimo dopo tremi. 140 secondi interminabili, a guardarci in faccia, a stringerci le mani, che si, ti sembrava di morire, ma stiamo tutti bene. Mother che mi chiama e mi chiede “Dove sei?”. Tornare a casa e per il borgo qualche calcinaccio. Il borgo ammaccato e sgrullato per bene, la gente per i vicoli, che si chiama, che cerca di dare conforto come può. Stare in strada. Rientrare. Dopo poco precipitarsi di nuovo fuori e continuare a tremare. Non è passata neanche un’ora e un’altra terribile scossa ci ha colpito. Aggirarsi per le strade affollate, guardare volti di persone conosciute in preda al panico a tormentarsi e a ringraziare per non aver subito danni, per essere ancora vivi. Rimanere in macchina, leggere freneticamente sui social cosa succede, perché chi ci torna in casa con cocci in terra di oggetti fracassati, l’intonaco della mia camera da letto caduto sulla scrivania e sui miei libri. E ancora scosse, una trentina in tre ore e tanta paura. Scosse di assestamento che a volte sembrano non finire mai, che sembrano anche peggio della prima, perché rinnovano la paura. Noi per fortuna stiamo bene. Ad Amatrice (bellissimo borgo), Accumuli, Arquata e Pescara del Tronto e altri paesi nel rietino e nelle basse Marche non possono dire la stessa cosa. Vedo le immagini scorrere in tv e mi viene da piangere. Ad ogni storia disastrosa che ascolto lacrime silenziose scivolano lungo le mie guance e non so come reagire. A volte sembra davvero che ci si accanisca. Quando poi ti rendi conto dei giornalisti che pur di accaparrarsi lo scoop non elemosinano nell’inquinare la tragedia, nel dipingerla a tinte fosche a renderla sempre più ignobile. E allora ti rendi conto di come si cerca di guadagnare su qualsiasi cosa, che la solidarietà di tantissimi si accompagna alla critica facile e al male di altri, che è più facile attaccare che rimboccarsi le mani, ma che c’è anche tanto bene intorno a noi. Equilibrare le cose sembra difficile ma è necessario per ricominciare e andare avanti. Piano piano stiamo tornando alla vita di sempre anche se viviamo sul chi vive, con l’incubo che potrebbe ripetersi da un momento all’altro. Raccogliendo cocci di suppellettili rotte, tremando ogni volta che sento un rumore sospetto, con il sangue gelato nelle vene ad ogni sussulto. E non mi abituerò mai a sentire la terra tremare.

domenica 21 agosto 2016

Dall’Appennino alle Alpi

“Sempre caro mi fu quell’ermo colle”

A volte sento una nostalgia perniciosa e inarrestabile, che calpesta le certezze tanto faticosamente raccolte. A volte mi ritrovo a fissare il paesaggio fuori dalla finestra e ad acquisire la consapevolezza che non lo ritroverò tanto presto, che mi trasferirò e che sarò lontana chilometri e chilometri. Se da un lato mi entusiasma finalmente andare a vivere da sola, senza i miei genitori, senza zie e senza inquilini, perché ho trovato un carinissimo monolocale da affittare, dall’altro mi mancherà ancora di più la mia terra, quelle calde colline tiepide e verdi, quei colori tipici del maceratese, quel borgo tanto odiato e tanto amato.
Eppure cerco di non pensare alla finalità di un viaggio dall’altro lato dell’Italia, cerco di non pensare al nuovo addio e all’impossibilità di scappate più frequenti come quando ero a Firenze. Firenze con quel mantello di struggenti riecheggi rinascimentali, vorticosi e ignari, quella “c” aspirata che non ho mai accettato del tutto e la stazione di Santa Maria Novella davvero capace di portarti dappertutto. Come al solito sono in preda all’ansia perché non so di preciso come andranno le cose. Tornare a Torino sarà come gettarsi nel vuoto, intraprendere una carriera di cui non so nulla mi lascia interdetta e ansiosa, spero davvero di prendere le decisioni giuste, di essere capace di fare tutto nel modo migliore, di essere davvero all’altezza della situazione. Ho paura, davvero, ma spero di sopravvivere come ho fatto fino ad ora.



martedì 16 agosto 2016

Becoming an adult is like jump in the void

Mi trovo nella mia camera da letto, quella dove sono cresciuta, a fissare il paesaggio collinare che si estende fuori dalla mia finestra. Il sole brilla sui campi dalla terra smossa, quelli con i girasoli secchi pronti per essere spazzati via per recuperare i semi e il verde degli alberi. L’estate è sempre stato il mio momento prediletto. Amo guardare il verde che si estende a perdita d’occhio, crogiolarmi al sole, sciogliermi nell’afa. Passare le ferie nella mia regione al sapore di una incongruenza infinita, anche quando tutto sembra perdersi nello scirocco. Se penso all’anno scorso, a come mi dibattevo alla ricerca di un’occupazione che stentavo a raccattare, mi viene quasi da ridere e vorrei tornare da quella neolaureata scoraggiata e dirle che si, saremmo sopravvissute, si ce l’abbiamo fatta non solo a vegetare ma a trovare un’occupazione entusiasmante e remunerativa. Non lo avrei mai creduto, eppure sono qui, a godermi le ferie. Eh le ferie, dopo sei mesi di corsa, studio, apprendimento, rischi, esperienze. Dopo aver vissuto a Firenze e ora a Torino.
È strano come improvvisamente inizi a pensare di essere adulta, di non essere più una ragazzina che alla minima difficoltà va dai genitori. O meglio che non vive più con la propria famiglia e che non si può più disinteressare di qualsiasi aspetto legato alla casa, alle tasse, alla vita. Una settimana fa ho firmato il mio primo contratto serio, un contratto a tempo indeterminato con una società di consulenza americana, ho accettato di trasferirmi a Torino e sto seguendo un progetto entusiasmante anche se pieno di pericoli. E sono così impaziente di compiere le mie scelte, di crescere, di entusiasmarmi anche se purtroppo aumentano in maniera esponenziale le responsabilità. Nessuno mi tratta più come la stagista della situazione, sono la Data Owner del nostro team, tengo le fila dei file, condivido le opinioni e le riunioni, intrattengo rapporti con il cliente offrendo il mio punto di vista e le mie competenze anche quando non sono esperta in niente. Il mio manager valuta la mia opinione, il mio collega l’altro giorno  mi ha detto che il nostro responsabile ha affermato che l’azienda vuole puntare su di me, facendomi crescere e dandomi competenze vere. Il che è davvero entusiasmante. Anche se spaventoso. Anche se completamente destabilizzante.
Per ora mi godo le ferie…

venerdì 22 luglio 2016

New town, new life

Torino ha il fascino antico di una città dalla pianta romana, così diversa dalla tipica pianta a cipolla dei borghi medievali che popolano le mie adorate colline. Torino è viva come lo può essere una città cosmopolita che cerca di adattarsi al momento storico che vive, con una folla di giovani, turisti e gente venuta all’avventura. I torinesi “falsi e cortesi”, dicono, eppure ancora non ne ho visto uno di torinese, stando chiusa incessantemente in uno dei palazzi storici del centro, a poche centinaia di metri da piazza Castello. Mercoledì sono uscita alle dieci dall’ufficio, con la consapevolezza che lavorare come consulente significa stare lì e battere sul ferro finché è caldo. Eppure come al solito mi trovo in un nuovo ambiente, completamente spaesata, a cercare di rimettere in fila i pezzi, senza competenze specifiche, senza le conoscenze bancarie che proprio non ho, perché ehi in fondo sono un ingegnere biomedico.
“Come sei arrivata qui?” “No comment” è stata la risposta di oggi al ragazzo che me lo ha chiesto. Come lo spieghi che trovare lavoro è difficilissimo e che per necessità finisci per accontentarti di qualsiasi cosa? Che poi alla fine non mi sono accontentata perché quello che faccio mi entusiasma anche se in questo momento sto un po’ arrancando. Ma è incredibile vedere come si gestisce una banca, come si mette su il motore che la fa funzionare, e sapere che stai contribuendo a farla andare avanti.
Eppure sono qui che combatto da quando sono arrivata con un cavolo di software che non vuole girare, con excel da riempire e io odio excel e la consapevolezza di essere l’unica donna in un team declinato tutto al maschile. L’altro giorno si andava avanti a suon di battutacce di un maschilismo che davvero ero basita, ma ho cercato di ignorare tutta la situazione, perché ehi sono l’ultima arrivata, e c’era il boss del cliente che ci paga e io davvero non potevo dire nulla. Un altro tipo se n'è uscito “Stavo discutendo con il responsabile delle filiere per inserire questo attributo, ma mi ha segato” “Perché non hai insistito?” gli hanno chiesto, “No era una donna, mi sono tirato indietro” come se una donna non fosse una persona con cui discutere e con cui raggiungere il compromesso più adeguato. Questi pregiudizi radicati in una mentalità gretta, in cui il tecnico è solo un uomo e una donna non può fare l’informatico perché non ne è in grado, deve finire. Ieri sono andata a consegnare gli excel finiti dal cliente sorridendo, e uno dei tipi mi ha detto "Se arrivi sorridendo così è si a prescindere", io ho continuato a sorridere, ho consegnato quello che dovevo e me ne sono andata.
Perciò non solo il progetto è un treno in corsa su cui devo saltare a bordo al volo perché non si ferma per me e con mille scadenze che io davvero non so come faremo a rispettare, considerando che abbiamo perso un botto di tempo stamattina per una riunione in cui abbiamo parlato di fluffa!, ma devo anche farmi forza, farmi il culo e dimostrare che sono capace quanto gli altri, che posso allinearmi e in frettta, perché in fondo io ce la posso fare, spero, anche in un mondo di uomini.



Torino, Piazza Castello 




venerdì 15 luglio 2016

Che lavoro fai?

- Studi?
- No, no, lavoro, mi sono laureata lo scorso anno.
- Ah bene... Che lavoro fai?
- Sono una consulente informatica.
- E di cosa ti occupi di preciso?
- Gestisco database, l'azienda per cui lavoro produce l'hardware e io aiuto i clienti a gestire il database all'interno del data warehouse aziendale con i nostri software specifici. Aiutiamo anche nella costruzione di un data warehouse ex-novo seguendo un nostro modello collaudato. Interrogo il database per avere informazioni utili secondo le richieste del cliente, opero per aumentare le performance, sviluppiamo applicazioni...
- Cosa?
- Lavoro con i computer per fare cose in un'azienda! 
- Ah bene, senti io ho questo problema... 


Souce

mercoledì 13 luglio 2016

Partire e tornare a mangiare bagna cauda

Quando ho iniziato questo percorso lo scorso novembre non avrei mai mai mai immaginato dove mi avrebbe portato. Quando sono arrivata ad Ariano Irpino con una candidatura inviata il giorno prima della scadenza del bando, una incredulità di fondo quando mi hanno chiamato di sabato per fare il colloquio la settimana successiva, il viaggio della speranza passando per Foggia e finendo in una stazione dimenticata da dio in fondo ad una valle, in Irpinia, di cui ignoravo l’esistenza. L’incontro con un palermitano e un ragazzo di Como con cui ho condiviso caffè, risate e pausa pranzo, nell’ansia di non sapere cosa fare della propria vita e tirocini a metà, e domande “ma tu ci vieni davvero qui ad Ariano se ti prendono?”. E quel colloquio in cui sono riuscita ad infilare i libri e Un uomo della Fallaci, con un’attesa infinita che sono stata la penultima che tanto io e l’altro ragazzo restavamo a dormire lì, che come ci torno a casa? E a momenti non ci tornavo neanche il giorno dopo, che per fortuna il tipo mi convinse ad andare con lui in autobus fino a Foggia (autobus che subì un guasto e si fermò a pochi chilometri da Ariano), che c’era stata l’alluvione nel beneventano e i treni non passavano. La certezza che quel colloquio fosse andato malissimo, con la prospettiva di altre ricerche al pc e invii di curriculum e depressione. La telefonata in un venerdì pomeriggio che si mi avevano  presa e “Oddio mamma devo andare ad Ariano!” e nessuno ci credeva, sembrava talmente impossibile, che io stentavo a realizzare. Una settimana frenetica di preparativi e il viaggio verso sud con l’ansia a palla e il ciclo. Eppure…  eppure sono sopravvissuta a tre mesi di scleri, progetti, consegne alle cinque della mattina, weekend ad Ariano con il palermitano, che avevano preso anche lui, e gli altri reclusi, a base di pranzi e cene cucinati da noi, e serate al Black Rose, pseudo studio e compiti di inglese. Freddo, neve, colloquio a Roma con l’ansia a due milioni con il capo dei capi della mia azienda preferita tra quelle che finanziavano il corso, e quella per cui hanno scelto di candidarmi, che quasi non ci credevo che ero tra loro. E ancora non stentavo a rendermi conto quando ci hanno convocato per dirci che ci avevano preso. Che si saremmo andati a fare il tirocinio lì. Ci avevano prospettato Roma, Milano, Torino e poi invece mi dissero “Ehi tu Annachiara vai a Firenze” che sembrava una figata assurda.  E prima vai a Milano, poi non vai più a Firenze ma a Torino. Quattro giorni a Torino e “ehi chiudiamo il progetto, saluti e baci” e vai a Firenze.
E qui a Firenze sono stata benissimo, il tirocinio più entusiasmante che potessi desiderare, con un supervisor che ci ha tenuto a insegnarmi il mestiere e a farmi volare da sola, tra prove al cardiopalma con il tasto invio premuto con il cuore in gola e presentazioni su argomenti che a momenti “sono l’esperta italiana” come ci teneva a sottolineare il mio supervisor. Quegli “ottimo lavoro” e “Bravissima” che mi risuonano ancora nel cervello nonostante tutto. Spiegare al cliente il funzionamento di una query già dal primo giorno a lavoro, che dopo tre settimane di lettura e spostamenti ero ancora praticamente digiuna di tutto, con tanta forza di volontà e la consapevolezza che niente è impossibile. E sembra passato un secolo e invece solo qualche mese, da quel piovoso (o nevoso) sabato di marzo in cui sono sbarcata nella patria di Dante.  E sono felice di come sono andate le cose anche se la solitudine mi ha inghiottito le ossa e mi ha fagocitato il temperamento. Credo che la mancanza di persone con cui vivere Firenze fuori dagli infratti del mio lavoro sia la cosa che più mi ha penalizzato e distrutto.
E ora… ora si apre un nuovo capitolo e torno a mangiare bagna cauda prima di quello che credevo. So Torino aspettami, di nuovo!




lunedì 11 luglio 2016

Partenza

Montelupone, home
Lacrime silenziose segnano i confini
la mia partenza troppo a lungo 
rimandata
sopita sotto cumuli di responsabilità
svanita nell'angoscia del mondo
sommerso
gelata nei confini della soluzione
sedata sotto un cielo plumbeo
corretta
dai preamboli sgualciti dalla foga
 inghiottita dalla paura del rifiuto.



venerdì 1 luglio 2016

Fare come i castori

Sapevo che non sarei riuscita a cambiare le carte in tavola, perché in fondo è così che va, sono a fissare questo scorrere muto di fronte all’infinito e invece ho perso di nuovo, ho perso la motivazione che mi serviva per continuare a credere in questa cosa, questa scintilla che forse mi sono solo immaginata. Come a dire di aver perso di fronte ai frammenti sconnessi della mia immaginazione.
E allora devo trovare soddisfazione altrove, da altre parti, da altri contesti. Dal lavoro, pensando che la mia forza di volontà è davvero  una spinta potente. E dovrei davvero smetterla di dubitare delle  mie capacità, che non è vero che sono un fallimento totale, che non è vero che sono un’incapace. Eppure quel senso implacabile di orrore e sfiducia continua a colpirmi, continua a mietere vittime nella mia mente desolata. Sono io che perdo, eppure sono io che cedo le armi. E in realtà ho avuto l’ennesima dimostrazione che non faccio così schifo. Il mio supervisor in realtà me lo ripete dall’inizio di questo tirocinio, ma io continuo a dirmi che no, non è vero, eppure lui mi da una fiducia sconfinata, eppure lui è uno di quelli che crede in me. Ne è la prova l’ennesima presentazione davanti ai colleghi esperti della nostra azienda e i nostri capi. I complimenti quel “ottimo lavoro!”, “la presentazione era ottima”, “bravissima” che mi ha regalato prima, durante e dopo, mi hanno dato quella consapevolezza di non essere proprio un’incapace. I feedback sempre positivi, la felicità di non rimpiangere nulla. Io ci sono,  posso farcela, anche quando tutto sembra perduto. La mia tigna, la mia volontà ferrea di non essere un peso e di non deludere nessuno, quella propensione a non essere da meno e di non fregarmene del gruppo e di non stare con le mani in mano mi aiuteranno sempre, spero.
Anche se sono sempre bersagliata dai dubbi, dalla facoltà di mettere in discussione tutto, soprattutto me stessa e i miei risultati, quelli che dovrebbero fare la differenza.




lunedì 27 giugno 2016

Gli occhi fissi all’orizzonte, in attesa

Credere di non poter commettere passi falsi, perdersi nella quotidianità di azioni ripetute, gesti che si ripercuotono sempre uguali a se stessi nel mondo che si aggiusta al dominio che cambia. La paura genera paura, insieme a quella incertezza ripetuta e mai corretta della mia quotidianità intransigente.
Attesa ancora di notizie, informazioni, generale senso di vuoto che si trascina inaffidabile ancora e sempre. Sono stanca di aspettare, vorrei agire di fronte allo spazio che si ristringe intorno al mio corpo scosso dalla spossatezza. Eppure è vero che ci si abitua a tutto, anche all’instabilità di punti di riferimento che si affossano. Si accascia anche il senso di perdita che si trascina nel baratro. La paura mangia il colosso che campeggia nel mio campo visivo, in quella consapevolezza da fin de siecle che cerca di conservare lo status quo e che invece ha perso e sta per cadere.
Sai quella sensazione di ansia che precede lo scoppio della tempesta, che puoi assaporare con la certezza che stia per arrivare qualcosa di terribile e ci provi a cacciarlo indietro, ci provi a respingere quella sensazione ma non te ne liberi, ti consuma le ossa fino a lasciare polvere. E quando davvero scoppia la tempesta, sei troppo debole per metterti in salvo, troppo consumato per salvarti. E finisci per perdere anche più di quello che avresti perso altrimenti.
Il tempo si ferma improvvisamente, gestito da un’entità che sfugge al controllo di ogni sensazionale momento che mi perseguita, genera solo un eco nella memoria. C’è una via di uscita. Spero che ci sia il modo per sfuggire a quella sensazione di perdita che sembra soffocare il cuore e il respiro. Sembra quasi di perdere i sensi, sembra quasi di non avere sufficiente capacità di sfuggire. Il respiro mozzato e attendo. Attendo.




mercoledì 22 giugno 2016

Il fastidio di un vuoto palpitante che fagocita

È incredibile come tu cerchi in tutti i modi di liberarti dai gioghi, eppure ti ritrovi invischiato in situazioni al limite, in situazioni totalmente strette, da essere opprimenti 24 ore su 24, senza via di uscita, senza possibilità di scappare, perché la situazione fa comodo, perché è quasi meglio così in una situazione incerta e senza scampo. Attendo ancora perché al momento è l’unica cosa da fare e attendere risposte, notizie, consigli, possibilità. Non c’è via di uscita. Odio attendere. Ma è un passo necessario in questo momento.
È l’idea di essere intrappolati in una situazione senza via di uscita che ci sconvolge, perché è quel senso di impotenza continua che ci impedisce di andare avanti.
Penso di non avere la capacità di discernere i dati utili da quelli inutili, rischio di spiegare le stesse cose ogni volta che mi ritrovo con una persona nuova. Sono in perdita, come sempre, con la convinzione di non essere arrivata da nessuna parte.
Il tempo che si consuma a valle delle mie emozioni si frange di fronte all’impossibilità di non capire il senso dell’inevitabile. È difficile sfuggire alle precipitose distanze che si dispiegano di fronte a me. Cadono frettolose con la stessa inconsistenza delle stelle cadenti. Precipitare nel vuoto lascia completamente inermi, lascia sull’orlo del baratro senza paracadute.
Eppure prima o poi le cose devono cambiare, devono migliorare, devono evolvere, approssimarsi verso la fine di una nuova costellazione non ancora analizzata, che sembra perdurare ai confini del tempo. Muore ai piedi della speranza, si frange ai confini della nostra perdita, con le lacrime che scorrono a fiumi, scorrono copiose e inarrestabili.


Cadere, perdere, desinbilizzarsi,
arti spezzati e mal digeriti
generale fastidio, colpito dall’impatto
urti molleggianti e generale inconcludenza
schiacciante perdita di coscienza
il fastidio di un vuoto palpitante che fagocita.





sabato 4 giugno 2016

Waiting for… like a fool

Se già ci apparteniamo poi dopo che succede
vorrei scavarti l'anima raccontarti che si vede
non voglio dalla vita una storia qualunque...



È il brivido che fa la differenza, quell’attimo sospeso di desiderio di quando si sta per muovere un passo verso il cedimento e la paura rarefatta che ti attanaglia le viscere. Sono giorni di attesa questi, vincolati alla paturnia di una scostanza ignobile. Quando ci rivedremo, quando ti rivedrò di nuovo, quando ti fisserò negli occhi che cosa ti dirò? Avrò il coraggio di confessarti quello che mi passa per la testa, che la voglia di accompagnarmi a te è forte, che vorrei abbattere la barriera della mia timidezza e delle mie insicurezze croniche per raggiungerti dall’altra parte del muro di vetro che mi blocca i passi e i battiti? Perché ho paura come sempre di affrontare la realtà. È più facile nascondermi dietro i pensieri stagnanti. E cosa che più mi sconvolge è il fatto che millanto di essere una di quelle ragazze aperte, che non si ritroverà mai persa in una situazione stagnante, che piuttosto si lancia. E poi invece mi ritrovo a fissare il telefono aspettando una prima mossa che probabilmente non arriverà. Perché d’altronde  non stiamo entrambi aspettando un incoraggiamento dall’altro? Non mi sono trincerata anche io in un flirting che non porta da nessuna parte? I nostri battibecchi in fondo non servono a nascondere l’imbarazzo? E quindi resto ancora qui, ferma, in attesa. Come una sciocca.



venerdì 27 maggio 2016

Certe sere piovigginose penso troppo

Sto pensando a quanto sia cambiata la mia vita nell’arco di pochi mesi, di come inevitabilmente mi sia dovuta adattare alla nuova situazione senza colpo ferire, perché in fondo la vita è così, una girandola di eventi da gestire come ti arrivano addosso. Eppure è tutto così sospeso. Fare piani a lungo termine è impossibile, è come cercare di trattenere l’acqua tra le mani per berla, alla bocca arriva giusto una goccia di tutta quella che vorresti tracannare.
Alti e bassi, gesti che si ripercuotono e altri che sfuggono e io mi ritrovo in mezzo, sospinta in più direzioni, a cercare di tirare le fila in mezzo ai lupi, che ululano maligni e incandescenti, spietati e certi, in mezzo ai flutti della tempesta. Da un lato la vita lavorativa è ricca e piena, dall’altro la solitudine mi attanaglia il cuore, spaventandomi con i suoi artigli affilati. Fa paura questa attesa incresciosa, è pericolosa per la mia salute mentale questo essere sempre a metà tra un posto ed un altro. Come fai ad accettare un cammino segnato dall’incertezza? Ti adatti, ci si abitua. Ci si abitua a tutto, anche al dolore sordo che batte contro le costole tutto il giorno.
La vita è questo una continua tensione verso il meglio che si spegne a contatto con il freddo gelido della realtà che schiaffeggia. Eppure sono in una città bella e ricca di arte e storia, mi sono allontanata dalle mie adorate colline tiepide nella campagna marchigiana, cristallizzate dalla mentalità della piccola gente, incantevoli nella loro maestosità dismessa. Fremo con la mia attività di consulente in cui sono stata catapultata. Eppure non sono tranquilla, le lacrime punzecchiano. E si tende, tende, tende, tende per non precipitare.  





giovedì 14 aprile 2016

Elegia a mia nonna

Lunedì sera stavo tranquillamente aggiornando il blog, togliendo cose inutili e anzi stavo per chiudere tutto che il giorno dopo dovevo svegliarmi presto per andare a lavoro. Mi è arrivato un messaggio che non ho letto subito perché pensavo fosse una mia amica con cui stavo chattando e poteva aspettare qualche minuto. E invece no. Era quella notizia che in fondo mi aspettavo da un po’ ma non avrei mai voluto ricevere, perché sai speriamo sempre che le persone che amiamo restino con noi in eterno, crediamo che siano immortali, immuni al tempo che passa, alla stanchezza, alla vecchiaia, al dolore. Ci svegliamo ogni mattina con la convinzione che troveremo quelle stesse persone sempre al nostro fianco, quelle persone che sono la nostra famiglia e ci hanno amato e protetto da sempre. Eppure purtroppo non è così, se ne vanno, fin troppo presto. Scivolano via per lasciarci con l’amaro in bocca a domandarci perché. Eppure la morte, perché è questo che ci ha colpiti, eppure la morte è una cosa naturale, che investe la nostra esistenza quotidianamente. Ma non vogliamo credere che colpisca proprio noi.
E seppure ora ho la consapevolezza che la nostra adorata nonna abbia smesso di soffrire, e sia da qualche parte libera, pure accettarlo è difficile. Me la immagino in un giardino a raccogliere le arance, a mangiare prugne e albicocche. Ed è questo che voglio fare, mantenere tutti quei ricordi felici che abbiamo costruito insieme, quei ricordi che sono nei nostri cuori, quei ricordi che indissolubili serberemo per sempre.
E penso a tutti i meravigliosi insegnamenti che ci ha lasciato, che donna forte e straordinaria sia stata la nonna, che persona caparbia, intelligente, gentile. E penso a come tutto assuma tinte diverse a ragion veduta, ma che in fondo ognuno di noi, ogni donna della nostra famiglia abbia preso esempio da lei, da una donna che ha vissuto a lungo senza smettere di conservare il suo affetto per noi. E anche se non ho vissuto con lei la quotidianità della vicinanza, perché a centinaia di chilometri di distanza, pure ogni volta ci ha regalato tempo e sorrisi, il suo entusiasmo per ogni nostro successo, il suo sostegno per le lunghe fasi di stallo. “Le cose si aggiustano” e si sono aggiustate davvero.
Sono grata per ogni festa insieme, per quei pranzi che io e mia sorella ci sognavamo con le pallottole, le cotolette, la parmigiana “che come le fa la nonna Edda nessuno”. Sono grata per il tempo che ci è stato concesso in quella condivisione limitata nel tempo, forse, ma forte nell’affetto. E restiamo noi a conservare memoria dei momenti trascorsi insieme, restiamo noi ad assaporare battute e smorfie, detti e fatti raccontati con la voglia di sentirla sempre vicina. Restiamo noi a non perdere nei cuori una mamma, una nonna, una sorella, una donna che non hai mai smesso di soffrire ma neanche di sostenerci, nei momenti belli e in quelli meno belli.
E ogni volta che avrò le mani fredde penserò alle sue, ogni volta che mangerò una cotoletta di mozzarella non sarà mai come la sua, ogni volta che mi capiterà di fare un cruciverba penserò a lei, ogni volta che vedrò un torroncino Strega penserò a lei, ogni volta che chiuderò gli occhi non smetterò mai di ricordare il suo esempio.




Dopotutto per le menti ben organizzate
la morte
non è altro che la prossima grande avventura.
Harry Potter e la Pietra Filosofale
J.K. Rowling

sabato 9 aprile 2016

I cannot live in fear

L’altra sera stavo messaggiando con a friend of mine e mi ha chiesto “Che fai stasera?” e io gli ho risposto “Sono a casa, mi guardo un film, che sono a Firenze, non mi sembra saggio uscire da sola, la sera”. Poi leggo un post di Mirya sulla sua pagina facebook e mi rendo conto che non possiamo vivere nella paura di fare le cose, non possiamo crogiolarci nell’angoscia di uscire di casa e non poter fare quello che ci piace, quello che amiamo perché temiamo che possa succederci qualcosa di brutto. È assurdo che io perché donna, perché “sesso debole”, perché il mio no non viene considerato come tale debba essere costretta a rinchiudermi in casa, a nascondermi da una città che vorrei scoprire e vivere. E bisogna sempre essere prudenti, pensare a quello che si dice e come lo si dice, perché si, insomma, la gente potrebbe pensar male. Ed è inconcepibile che ancora non ci sia l’educazione a un rispetto che svincoli dai pregiudizi, che sia edulcorato dalla improbabile forma mentis di generazioni su generazioni di maschilismo estremo. E mi addolora sapere che sono le donne le prime nemiche di loro stesse, che sono loro a subire le conseguenze di comportamenti meschini e intransigenti, che debbano chinare la testa e perdersi in strade inesplorate, col rischio di essere fagocitate. Dobbiamo avere cura di noi stesse, avere il coraggio di non subire passivamente, di far rendere conto a chi ci circonda che siamo libere di agire come vogliamo, alla ricerca di una realizzazione personale che esula da qualsiasi costrizione.

Non possiamo vivere nella paura.



Le ragazze fanno grandi sogni
forse peccano di ingenuità
ma l’audacia le riscatta sempre
non le fa crollare mai.








sabato 2 aprile 2016

Passeggiata a Ponte Vecchio

Fiumi di sconosciute parole,
gerghi che risuonano guardinghi
strette di mano
profumo di incertezza
ceramica e oro
arti stanchi
passi che si portano in quella città che niente nasconde
e tutto mostra al vento che ulula.



Ponte Vecchio Firenze, foto di Anncleire

giovedì 31 marzo 2016

Attimi che si sommano, attimi che si sottraggono

Gli effetti invisibili che non riesco a comprendere sono quella somma di azioni volontarie o involontarie che mi hanno portato fino a qui. Un percorso tutto in salita, con traguardi faticosamente raggiunti vetta dopo vetta, con quegli scarponi che lasciano vesciche, il bastone a cui sorreggerti che piaga le mani, la convoluzione di sofferenza e sacrificio che non smette mai di pungolare. Attimi, che si sommano, che si sottraggono che si catapultano nell’imperfezione di incongruenze esplicite.
Da piccola sognavo di fare l’archeologa (ero super fissata con gli Antichi Egizi), l’astronoma (per uno dei miei compleanni, mi pare in seconda media, mi sono fatta regalare un telescopio, ce l’ho ancora inscatolato nel mio armadio e ogni tanto vorrei aprirlo, ma non ho spazio, e ora sono lontana da casa), la biologa marina (mi ero fissata con i delfini in maniera mooolto preoccupante) e per finire la critica letteraria (che i libri mi sono sempre stati accanto in ogni momento della mia vita). Eppure al momento fatidico della scelta universitaria, al colmo della confusione, divisa tra una fisica pura (e poi che diamine ci fai nella vita?) e una scienze del turismo dettata anche dal mio impegno con il comune del mio paese, me ne sono uscita con Ingegneria Biomedica. Avevo visto un servizio al tg su un occhio bionico impiantato con successo(che scopro oramai impiantato anche all’ospedale di Carreggi qui a Firenze, poi dici i casi della vita) e mi ero talmente gasata che mi sono detta “no voglio fare anche io cose del genere... come posso fare?”. Poi visto che c’era alla Politecnica delle Marche, è stato un attimo decidere, che si, quello sarebbe stato il mio destino.
Non avrei mai, mai, mai immaginato che sarebbe stato così difficile, mai avrei immaginato prima di iniziare le difficoltà a cui sono andata incontro, che ho dovuto superare, i rospi da ingoiare, l’ambiente, ancora di un maschilismo dirompente, popolato da uomini, con cui rivaleggiare, a cui dimostrare che si, hai le loro stesse capacità, se non di più. Le nottate di studio, i progetti, gli esami, le lezioni, l’essere pendolare, le amicizie, i gruppi di studio. Ricordi indelebili, ma che pesano.  E poi... e poi alla fine eccomi a fare la consulente informatica, che non c’entra niente con l’ingegneria biomedica. Che si ci sguazzavo tra le protesi e avrei pure voluto continuare a lavorarci (continuare magari anche con la mia tesi, che avere una protesi di ginocchio per le mani, compresa la sua stampa 3D, averne progettato, disegnato e studiato con la FEM) pure è finita diversamente. Sono cambiata tanto in un anno e sono anche professionalmente cresciuta molto, ho acquisito competenze che non mi sarei mai sognata.
E sono qui, a Firenze, ad occuparmi di database. Non si sa mai dove si va a finire finché non ci si arriva. 




lunedì 21 marzo 2016

Lotta intestina

Oggi è la giornata mondiale della poesia, salutando Alda Merini, io la festeggio con questa


Abiti strappati
atti inconsulti
grida rauche contro il cielo
sedicenti profumi intrappolati
ansiti convogliati da membra spente
mani intrecciate
braccia tremanti
spasmi inconsulti
brevi atti di clamore
ignara consapevolezza di beltà
progredire o arretrare
muoversi o abbandonarsi
lotta intestina di una notte. 

domenica 20 marzo 2016

I am not alone

A volte mi prosciugo nella sensazione di non esserci, di aver dimenticato davvero cosa significa star soli, spersi in un posto in cui neanche posso essere davvero me stessa, perché sono costretta a sottostare alle regole di un’altra persona, nella casa di un’estranea in cui non posso neanche utilizzare il mio bagnoschiuma preferito. E seppur so che è solo per un periodo, che devo stringere i denti, beh non ce la faccio. La soffro questa solitudine cristallizzata in momenti di inconsistenza, la soffro terribilmente. E ringrazio immensamente il telefono, il cellulare che è il prolungamento della mia mano perché mi sta salvando in momenti che davvero non avrei creduto.
E poi ho l’ansia a due miliardi, passo da stati di esaltazione ad altri di ansia liquida ad altri di paura, con il panico che mi coglie alle spalle e la sensazione di soffocare. Il mio lavoro mi sta entusiasmando. Perché per fortuna il mio supervisor è una bravissima persona che mi stimola a dare il meglio, con la spensieratezza e la giocosità tipica dei fiorentini, e l’aria di chi non ti guarda passivamente scivolare davanti ai suoi occhi. Ci metto il massimo, iniziando ad abituare la mia mente ad essere una dipendente di una multinazionale americana che si occupa di Post-Sales Services. Ed è qui che tutto si complica, che nonostante tutto non sono pronta per diventare adulta, per assumermi le responsabilità che un lavoro così serio comporta. Ho paura di toppare ad ogni cosa, e mantengo sempre un atteggiamento non committante, soprattutto per quanto riguarda cose che non so. E ripenso con una certa nostalgia ai tre mesi trascorsi ad Ariano Irpino, a quel mondo che mi ha formato e mi ha anche in qualche modo protetto, che in un certo senso mi ha spinta ad andare avanti. E sono qui, cercando di fare del mio meglio anche quando mi reputo una mezza calzetta.
E poi ho letto il discorso a TED di Reshma Saujani, CEO e fondatrice di Girls who code in cui parla proprio della mancanza di coraggio e sicurezza che affligge le donne quando si confrontano con un lavoro, come quello del programmatore informatico che ha bisogno di inventiva, di tentativi, di imperfezione e mi sono ritrovata a pensare di quanto io stessa mi freni nei confronti di una situazione che dovrebbe essere semplice.

“Programmare è un continuo processo fatto di prove ed errori, di tentativi di inserire la giusta linea di codice al giusto posto, dove spesso una parentesi in più o in meno segna la differenza tra successo e fallimento. Il codice si rompe e si sgretola, e spesso servono molti, moltissimi tentativi prima che arrivi il momento magico in cui ciò che stavi cercando di fare prende vita. Programmare richiede perseveranza. Richiede imperfezione.”

Ed è vero che siamo noi stesse a bloccarci, che non ci trinceriamo dietro l’incapacità di rischiare perché la paura del fallimento vince su tutto, si impossessa della nostra psiche paralizzandoci, evitando di buttarci nella mischia e finiamo così per perdere il treno che ci passa davanti. Sto cercando di buttarmi alle spalle i dubbi e le incertezze, ma è così maledettamente difficile superare la paura di fallire.
Spero di farcela, di non arrendermi, di superare le mie insicurezze croniche, perché realizzarmi professionalmente è ciò a cui aspiro di più.


Good coding.



martedì 8 marzo 2016

I am no man... buona festa della donna a me

Pensavo che non ci sarebbe stato posto per me o che comunque sarei rimasta a fissare il vetro fuori dalla stanza in cui mi trovo senza un vero scopo, con addosso la disarmante consapevolezza di non essere buona a nulla, che in qualche modo la mia presenza sarebbe stata solo ingombrante, una di quelle di cui liberarsi il più presto possibile. Sono arrivata e sono già stata risucchiata nel lavoro. Sono arrivata da un giorno e già ho presentato qualcosa di utile, sono qui da due giorni e già ho dato il mio contributo. E per un'insicura cronica come me, che si lascia abbattere da qualsiasi dubbio esistenziale sentirsi dire "che non possono portarti via, che ci servi" è qualcosa di talmente tanto importante, di talmente tanto impossibile che proprio non riesco a capacitarmene. No perché davvero io? Ma siete sicuri? No perché mi sa che avete ricevuto qualche colpo in testa. 
Ed oggi, in una giornata tale, in cui sono stata anche lodata con il capo del mio capo (il pezzone grosso con cui ho fatto il colloquio) non posso che gioirne. Che magari è solo per oggi, magari già domani farò qualche cavolata, ma per oggi me lo strappa un sorriso, giusto per oggi un pochino soddisfatta di me lo posso essere. E forse è solo oggi, ma forse lo sarà anche in futuro. Spero solo di essere all'altezza. Spero solo di non fare cazzate. Spero solo di non farmi mangiare dai dubbi. 



domenica 6 marzo 2016

Ansia... il mio secondo nome

It is the unknown we fear when we look upon death and darkness, nothing more.
Harry Potter and the Half-Blood Prince – J.K. Rowling


Sto imparando a vivere alla giornata, senza darmi troppa pena di quello che succederà. La vita è così complicata, piena di alti e bassi, troppe incertezze e bisogna avere il coraggio di non mollare, di essere lì sempre anche quando ci sembra inevitabile cadere, anche quando lasciar perdere tutto sembra l’unica mossa possibile. Mi sento come in una partita a scacchi, in stallo, senza la vera consapevolezza di dove andare, come salvarmi, come raggiungere una certa tranquillità interiore senza impazzire. Perché le cose sono cambiate di nuovo. Dopo una brevissima parentesi torinese, segnando il record di permanenza più breve in un progetto, sono a Firenze. Sono qui nella ridente Toscana, anche se sono stata accolta da una pioggia battente e l’Arno che ulula fuori della mia finestra. Sono qui in un’ennesima stanzetta, con il freddo che mi penetra nelle ossa e la sensazione di non essere all’altezza. Domani, domani inizio per l’ennesima volta in un nuovo ufficio, con gente sconosciuta, da sola, irreparabilmente sola, con la consapevolezza che no, sono un impostore, perché diamine mi hanno assunta? Ho l’ansia a duemila, non so cosa aspettarmi e aspetto di non svenire, di non perdermi. Sono terrorizzata all’idea di non essere in grado di farcela, di perdermi nei meandri di una situazione che non mi appartiene. Ho paura, sempre. E ho l’ansia che mi sta fagocitando le viscere. E anche se da un lato sono contenta di iniziare questa nuova esperienza, dall’altro non so davvero come farò a uscirne viva. Perché è complicato e per la prima volta dopo tanto tempo stare da sola e ricominciare da capo mi rende instabile.


Prima o poi ce la farò a smettere di scrivere post depressi. Forse.




giovedì 25 febbraio 2016

Life sucks

Sono a Milano, in questa stanza dai contorni troppo grandi e troppo vuota in un seminterrato in una zona che mica l’ho capito se è tranquilla o no. La casa, un ricettacolo di personalità differenti, provenienze diverse e attitudini completamente agli antipodi, raccoglie vagabondi e pazzi che cercano un posto economico. E dire che l’ho trovata su Airbnb. Il mio mantra è “ci devo rimanere solo due settimane, e sono già quasi passate”. Ce la posso fare, o almeno continuo a ripetermelo, sono certa che prima o poi ci crederò anche io.
Milano, che ho visto solo attraversando la metro da est a ovest e da sud a ovest, è grigia come dicono, inquietante e pervasa dallo smog che ti stringe la gola, ti brucia i polmoni e non ti permette di respirare. Ed è vero che Milano è sempre associata al Duomo ma nelle mie piccole esplorazioni mi ha permesso di vedere anche altre cose. Per esempio il castello e il parco che lo circonda e quel misto di strade piene di negozi e i Navigli, quartieri residenziali e zone che sfiorano il degrado urbano. Milano piena di contraddizioni e quelle situazioni da fighetti, che è tutta da bere. Che una Corona 10 euro, perché avevano finito la Tennent’s (e col cavolo i cocktail fruttati che sono super zuccherosi) all’aperitivo solo qui eh!

Ma dov’è che dovevo andare? Ah si, Firenze, beh cancellato, lunedì ci hanno comunicato che a me e a un mio collega ci mandano a Torino per due mesi, che c’è un super progetto importante e servono risorse e non vi preoccupate che vi paghiamo tutto noi. Tra problemi che si risolvono (che mica l’avevo trovata casa a Firenze) e altri che arrivano, sembra tutto un movimento di forze positive e negative. Con l’influenza che ancora mi è rimasta attaccata addosso, e le notizie catastrofiche che non smettono di arrivarmi addosso, ho solo voglia di chiudermi in un guscio e non sentire più niente. E sono qui, lontana chilometri e anche se vorrei partire e raggiungere la mia famiglia che si sta raccogliendo tutta intorno a mia nonna, sono qui in questa Milano grigia e solitaria. Anche se vorrei prendere il treno, mia Madre mi ha detto di aspettare, di non farlo, di non muovermi, di guarire, di aspettare. E so già che arriverò troppo tardi, che avrò perso l’occasione per salutare mia nonna, che quando mi dirà qualcosa sarà troppo, incredibilmente tardi. Queste cazzo di situazioni in bilico, con una scarpa in una valigia buttata ai piedi del letto e la sensazione di perdere tempo, di non vedere la fine, di non esserci. E mentre aspetto una lavatrice che concluda il suo ciclo di lavaggio, con la testa pesante e la tosse che riecheggia mi rendo conto che la vita fa schifo, sempre di più. 



venerdì 5 febbraio 2016

AAA Cercasi casa a…

Pensavo che sarebbe stato tutto incredibilmente facile e invece sembra esserci un imprevisto ad ogni piè sospinto. Quando mi hanno detto “Si ok, sei dentro, ti prendiamo” immaginavo che tutto si sarebbe incastrato a meraviglia, con la certezza che poi si yeah vado a Firenze, Firenze è figa, mi troverò bene. E invece no, no cavolo, devo andare due settimane a Milano e trovare un appoggio è quanto di più complicato ci sia. Ma insomma, insomma, sta per iniziare una nuova avventura. Finalmente sarò una donna *coffcoff* in carriera *coffcoff*. Eppure non sono serena, anche se la realizzazione professionale, ben lontana e dal mio corso di studi, e dalle mie inclinazioni originali, sembra sempre più vicina, pure vivo costellata da mille dubbi amletici, dalla consapevolezza che no, no, non sarò all’altezza. E questa è la mia condizione quotidiana, perché i dubbi non riesco a decapitarli, restano lì. Una coda di lucertola che sembra vivere di vita propria e continua a perseguitarmi.



Sono a casa da qualche giorno e già mi manca la mia indipendenza, la routine che avevo creato ad Ariano, quel misto di fatica e costernazione che dilagava e si contorceva. Quel miscuglio di noia per la neve, entusiasmo per ogni iniziativa, sottolineato costantemente da “Righe”, cristallizzato in una pessima esibizione a cappella di “Come deve andare” degli 883 e generata dall’inquietudini generazionali di altri trenta giovani come me.
Speriamo che vada tutto bene…




Tutto va come deve andare
O perlomeno così dicono
Tutto va come deve andare
O perlomeno me lo auguro


domenica 24 gennaio 2016

Sunday evening

E' domenica sera, i vetri della finestra appannati, con un gelo persistente che non se ne va. Dovrei fare gli ultimi compiti di inglese del corso, e invece sono qui a tergiversare, ad osservare lo schermo del computer che si riempie di parole, con un libro aperto davanti, perché senza libro non si vive, o almeno io non vivo e sto pensando che è quasi finita, che sto per iniziare una nuova avventura di cui non so nulla, che inizierà la vita vera lavorativa e che dovrò impegnarmi, che sto per partire di nuovo, che è fatta e in qualche modo mi sta venendo l’ansia. Dovrò iniziare una nuova routine e abbandonare i rapporti che ho costruito in tre mesi di convivenza forzata, di lavoro massacrante su progetti e esercitazioni. Tra compiti infiniti e abbigliamenti formali. E intanto ho l’ansia, di nuovo, perché ricominciare da capo è sempre difficile, ma questa volta ho una carica in più, anche se come sempre temo di non farcela, di deludere me stessa e chi mi ha dato fiducia, perché si anche io soffro della sindrome dell’impostore e spero di non mollare perché davvero mi nasconderei in un angolo con le mani tra i capelli a piangere.



domenica 10 gennaio 2016

Bruxelles

Sedimenti di vestigia eterne, 
frammenti inerti di storie dimenticate, 
labili riflessi sul fondo di uno schema mai sopito,
l'abbandono cristallizzato in memorie flebili,
incongruenze spettacolari nella quotidianità scalfita 
da una nostalgia inestinguibile.
Solo il pallido riverbero di mesi gioiosi,
perfetti nello status passato.




Taken from Instagram and Visit Brussels page on Facebook

martedì 5 gennaio 2016

Christmas time


Anime innamorate e pure giovani anime
insolenti ragazzini birichini
solerti uomini rosso vestiti
candide coltri e intermittenti brillori accartocciati voluminosi involucri
lente nenie e squillanti campanacci
sedimentate tradizioni, regalate e mai corrette
venerabili riti, perpetrati gloriosi misteri
sacre scene composte e venerate 
sontuosi pasti e dolci conclusioni 
amorevoli gesti sparsi generosamente 
mentre la scia luminosa cicla.

sabato 2 gennaio 2016

Disperatamente lei

La mano che fende l’aria,
i colpi contati con la gola secca,
tremori ingrati in un'occasione amara
mentre il gallo canta
e il pendolo rintocca la mezzanotte.

Sente il cuore che pulsa,
i passi che rimbombano tra le coperte
la fanfara di un agguato minaccioso
in un attimo venuto allo scoperto
sulle spalle piegate in rassegnazione.

Il grido spento, naufragio disperato,
le ginocchia tremanti
i palmi scivolosi e incerti
con quell’ombra che incombe torva
e sinistra in un’interminabile notte.

Stringe le mani in seno,
chiede disperatamente venia,
si accascia spenta in un ultimo disperato gesto
in fervente preghiera
con il sangue che zampilla incauto.





Oggi pensavo che ho perso tutte le mie poesie, quelle che avevo digitalizzato con immensa pazienza, e mi viene da piangere. Ne ho alcune sparse, come questa.

venerdì 1 gennaio 2016

Welcome 2016, another year of living

Il 2015 è stato un anno strano per me, pieno, entusiasmante, ricco, estenuante, coinvolgente, assolutamente indimenticabile, ma anche incredibilmente faticoso. Ho vissuto, ogni attimo, con immensa gioia e con tanto sacrificio. Ci sono stati dei momenti in cui non sapevo cosa sarebbe stato della mia vita, momenti che mi hanno fatto riflettere su di me, su quello che ho combinato fino ad ora e su dove voglio andare in futuro, perché diciamocelo, quando si intraprende la carriera universitaria si hanno tante aspirazioni, tanti sogni e poi ci si deve scontrare con la dura realtà, quella di un mondo del lavoro in cui è difficilissimo entrare, che non ha nulla di concreto, ma che sembra sempre remare contro. E contro ogni previsione, il 18 febbraio, tra tanti sospiri, sono finalmente riuscita a prendere quel maledetto pezzo di carta.
Ma non è stato solo un anno positivo, ci sono stati momenti terribili, momenti che mi hanno messa in crisi, che mi hanno sconvolto l’esistenza, momenti in cui ho pensato che forse, forse, non tutto è oro quel che luccica, che ci vuole pazienza, impegno, costanza, amore e sacrificio. Che tendere alla serenità è uno sforzo continuo, che trasluce, che esalta il nostro impegno costante. E allora quello che voglio dal 2016 è solo la forza per continuare a mettercela tutta, a continuare a sognare e a vivere, con l’entusiasmo di sempre. Fare pace con me stessa e il mio senso di inadeguatezza, essere me stessa, con la mia forza, e la mia gioia. Io sempre.


Oooooooh that's right
Let's take a breath, jump over the side
Oooooooh that's right
How can you know it if you don't even try
Oooooooh that's right

Every step that you take
Could be your biggest mistake
It could bend or it could break
But that's the risk that you take