giovedì 25 agosto 2016

Non mi abituerò mai a sentire la terra tremare

Una delle cose più terribili che abbia mai dovuto affrontare da sempre è il terremoto. È una delle cose che mi spaventa di più in assoluto, perché di fronte alla terra che inizia a tremare non possiamo fare nulla, se non metterci in salvo e osservare immobili i danni. Ed è incredibile ripensare al terrore cieco che mi ha catturato ogni volta che siamo stati investiti dal sisma. Quello del 97, quando ero solo una bimba di otto anni, sotto al banco di terza elementare, tra Marche e Umbria, Colfiorito distrutto da macerie e macerie, con i container rimasti lì per anni. Il 6 aprile 2009, quelle 3:35 che nel cuore della notte ci hanno fatto precipitare in strada, e dormire tutti nel lettone dei miei, con gli  occhi sbarrati e il mattino dopo l’esame di Fondamenti di Automatica, e chi se lo scorda, con gli amici abruzzesi trapiantati ad Ancona con gli occhi vacui e il terrore nel cuore, completamente impotenti. Lo guardo fisso al telegiornale, tantissime giovani vite spezzate, quella Casa dello Studente sventrata e irriconoscibile. E nel maggio del 2012 in Emilia, a pochi giorni dal mio compleanno, la terra sussulta, il cuore piange, tantissimi amici oltre confine della mia regione. E sempre ti assale quella paura cieca, la voglia di scappare, non sapere dove andare, ansia per quel mondo che sembra scomparire in un attimo, invaso dalle macerie e dal tremore.
Anni dopo e continuo a tremare. Tremo, lo faccio da giorni oramai, incapace di mettere a tacere la paura angosciante. Martedì notte ero a casa di amici a bere e ridere quando è iniziato a ballare tutto. Secondi interminabili, paura che ti attanaglia le viscere, le gambe che tremano anche dopo. 3:36 e tutto rapidamente cambia. Un attimo prima ridi, un attimo dopo tremi. 140 secondi interminabili, a guardarci in faccia, a stringerci le mani, che si, ti sembrava di morire, ma stiamo tutti bene. Mother che mi chiama e mi chiede “Dove sei?”. Tornare a casa e per il borgo qualche calcinaccio. Il borgo ammaccato e sgrullato per bene, la gente per i vicoli, che si chiama, che cerca di dare conforto come può. Stare in strada. Rientrare. Dopo poco precipitarsi di nuovo fuori e continuare a tremare. Non è passata neanche un’ora e un’altra terribile scossa ci ha colpito. Aggirarsi per le strade affollate, guardare volti di persone conosciute in preda al panico a tormentarsi e a ringraziare per non aver subito danni, per essere ancora vivi. Rimanere in macchina, leggere freneticamente sui social cosa succede, perché chi ci torna in casa con cocci in terra di oggetti fracassati, l’intonaco della mia camera da letto caduto sulla scrivania e sui miei libri. E ancora scosse, una trentina in tre ore e tanta paura. Scosse di assestamento che a volte sembrano non finire mai, che sembrano anche peggio della prima, perché rinnovano la paura. Noi per fortuna stiamo bene. Ad Amatrice (bellissimo borgo), Accumuli, Arquata e Pescara del Tronto e altri paesi nel rietino e nelle basse Marche non possono dire la stessa cosa. Vedo le immagini scorrere in tv e mi viene da piangere. Ad ogni storia disastrosa che ascolto lacrime silenziose scivolano lungo le mie guance e non so come reagire. A volte sembra davvero che ci si accanisca. Quando poi ti rendi conto dei giornalisti che pur di accaparrarsi lo scoop non elemosinano nell’inquinare la tragedia, nel dipingerla a tinte fosche a renderla sempre più ignobile. E allora ti rendi conto di come si cerca di guadagnare su qualsiasi cosa, che la solidarietà di tantissimi si accompagna alla critica facile e al male di altri, che è più facile attaccare che rimboccarsi le mani, ma che c’è anche tanto bene intorno a noi. Equilibrare le cose sembra difficile ma è necessario per ricominciare e andare avanti. Piano piano stiamo tornando alla vita di sempre anche se viviamo sul chi vive, con l’incubo che potrebbe ripetersi da un momento all’altro. Raccogliendo cocci di suppellettili rotte, tremando ogni volta che sento un rumore sospetto, con il sangue gelato nelle vene ad ogni sussulto. E non mi abituerò mai a sentire la terra tremare.

domenica 21 agosto 2016

Dall’Appennino alle Alpi

“Sempre caro mi fu quell’ermo colle”

A volte sento una nostalgia perniciosa e inarrestabile, che calpesta le certezze tanto faticosamente raccolte. A volte mi ritrovo a fissare il paesaggio fuori dalla finestra e ad acquisire la consapevolezza che non lo ritroverò tanto presto, che mi trasferirò e che sarò lontana chilometri e chilometri. Se da un lato mi entusiasma finalmente andare a vivere da sola, senza i miei genitori, senza zie e senza inquilini, perché ho trovato un carinissimo monolocale da affittare, dall’altro mi mancherà ancora di più la mia terra, quelle calde colline tiepide e verdi, quei colori tipici del maceratese, quel borgo tanto odiato e tanto amato.
Eppure cerco di non pensare alla finalità di un viaggio dall’altro lato dell’Italia, cerco di non pensare al nuovo addio e all’impossibilità di scappate più frequenti come quando ero a Firenze. Firenze con quel mantello di struggenti riecheggi rinascimentali, vorticosi e ignari, quella “c” aspirata che non ho mai accettato del tutto e la stazione di Santa Maria Novella davvero capace di portarti dappertutto. Come al solito sono in preda all’ansia perché non so di preciso come andranno le cose. Tornare a Torino sarà come gettarsi nel vuoto, intraprendere una carriera di cui non so nulla mi lascia interdetta e ansiosa, spero davvero di prendere le decisioni giuste, di essere capace di fare tutto nel modo migliore, di essere davvero all’altezza della situazione. Ho paura, davvero, ma spero di sopravvivere come ho fatto fino ad ora.



martedì 16 agosto 2016

Becoming an adult is like jump in the void

Mi trovo nella mia camera da letto, quella dove sono cresciuta, a fissare il paesaggio collinare che si estende fuori dalla mia finestra. Il sole brilla sui campi dalla terra smossa, quelli con i girasoli secchi pronti per essere spazzati via per recuperare i semi e il verde degli alberi. L’estate è sempre stato il mio momento prediletto. Amo guardare il verde che si estende a perdita d’occhio, crogiolarmi al sole, sciogliermi nell’afa. Passare le ferie nella mia regione al sapore di una incongruenza infinita, anche quando tutto sembra perdersi nello scirocco. Se penso all’anno scorso, a come mi dibattevo alla ricerca di un’occupazione che stentavo a raccattare, mi viene quasi da ridere e vorrei tornare da quella neolaureata scoraggiata e dirle che si, saremmo sopravvissute, si ce l’abbiamo fatta non solo a vegetare ma a trovare un’occupazione entusiasmante e remunerativa. Non lo avrei mai creduto, eppure sono qui, a godermi le ferie. Eh le ferie, dopo sei mesi di corsa, studio, apprendimento, rischi, esperienze. Dopo aver vissuto a Firenze e ora a Torino.
È strano come improvvisamente inizi a pensare di essere adulta, di non essere più una ragazzina che alla minima difficoltà va dai genitori. O meglio che non vive più con la propria famiglia e che non si può più disinteressare di qualsiasi aspetto legato alla casa, alle tasse, alla vita. Una settimana fa ho firmato il mio primo contratto serio, un contratto a tempo indeterminato con una società di consulenza americana, ho accettato di trasferirmi a Torino e sto seguendo un progetto entusiasmante anche se pieno di pericoli. E sono così impaziente di compiere le mie scelte, di crescere, di entusiasmarmi anche se purtroppo aumentano in maniera esponenziale le responsabilità. Nessuno mi tratta più come la stagista della situazione, sono la Data Owner del nostro team, tengo le fila dei file, condivido le opinioni e le riunioni, intrattengo rapporti con il cliente offrendo il mio punto di vista e le mie competenze anche quando non sono esperta in niente. Il mio manager valuta la mia opinione, il mio collega l’altro giorno  mi ha detto che il nostro responsabile ha affermato che l’azienda vuole puntare su di me, facendomi crescere e dandomi competenze vere. Il che è davvero entusiasmante. Anche se spaventoso. Anche se completamente destabilizzante.
Per ora mi godo le ferie…