venerdì 22 luglio 2016

New town, new life

Torino ha il fascino antico di una città dalla pianta romana, così diversa dalla tipica pianta a cipolla dei borghi medievali che popolano le mie adorate colline. Torino è viva come lo può essere una città cosmopolita che cerca di adattarsi al momento storico che vive, con una folla di giovani, turisti e gente venuta all’avventura. I torinesi “falsi e cortesi”, dicono, eppure ancora non ne ho visto uno di torinese, stando chiusa incessantemente in uno dei palazzi storici del centro, a poche centinaia di metri da piazza Castello. Mercoledì sono uscita alle dieci dall’ufficio, con la consapevolezza che lavorare come consulente significa stare lì e battere sul ferro finché è caldo. Eppure come al solito mi trovo in un nuovo ambiente, completamente spaesata, a cercare di rimettere in fila i pezzi, senza competenze specifiche, senza le conoscenze bancarie che proprio non ho, perché ehi in fondo sono un ingegnere biomedico.
“Come sei arrivata qui?” “No comment” è stata la risposta di oggi al ragazzo che me lo ha chiesto. Come lo spieghi che trovare lavoro è difficilissimo e che per necessità finisci per accontentarti di qualsiasi cosa? Che poi alla fine non mi sono accontentata perché quello che faccio mi entusiasma anche se in questo momento sto un po’ arrancando. Ma è incredibile vedere come si gestisce una banca, come si mette su il motore che la fa funzionare, e sapere che stai contribuendo a farla andare avanti.
Eppure sono qui che combatto da quando sono arrivata con un cavolo di software che non vuole girare, con excel da riempire e io odio excel e la consapevolezza di essere l’unica donna in un team declinato tutto al maschile. L’altro giorno si andava avanti a suon di battutacce di un maschilismo che davvero ero basita, ma ho cercato di ignorare tutta la situazione, perché ehi sono l’ultima arrivata, e c’era il boss del cliente che ci paga e io davvero non potevo dire nulla. Un altro tipo se n'è uscito “Stavo discutendo con il responsabile delle filiere per inserire questo attributo, ma mi ha segato” “Perché non hai insistito?” gli hanno chiesto, “No era una donna, mi sono tirato indietro” come se una donna non fosse una persona con cui discutere e con cui raggiungere il compromesso più adeguato. Questi pregiudizi radicati in una mentalità gretta, in cui il tecnico è solo un uomo e una donna non può fare l’informatico perché non ne è in grado, deve finire. Ieri sono andata a consegnare gli excel finiti dal cliente sorridendo, e uno dei tipi mi ha detto "Se arrivi sorridendo così è si a prescindere", io ho continuato a sorridere, ho consegnato quello che dovevo e me ne sono andata.
Perciò non solo il progetto è un treno in corsa su cui devo saltare a bordo al volo perché non si ferma per me e con mille scadenze che io davvero non so come faremo a rispettare, considerando che abbiamo perso un botto di tempo stamattina per una riunione in cui abbiamo parlato di fluffa!, ma devo anche farmi forza, farmi il culo e dimostrare che sono capace quanto gli altri, che posso allinearmi e in frettta, perché in fondo io ce la posso fare, spero, anche in un mondo di uomini.



Torino, Piazza Castello 




venerdì 15 luglio 2016

Che lavoro fai?

- Studi?
- No, no, lavoro, mi sono laureata lo scorso anno.
- Ah bene... Che lavoro fai?
- Sono una consulente informatica.
- E di cosa ti occupi di preciso?
- Gestisco database, l'azienda per cui lavoro produce l'hardware e io aiuto i clienti a gestire il database all'interno del data warehouse aziendale con i nostri software specifici. Aiutiamo anche nella costruzione di un data warehouse ex-novo seguendo un nostro modello collaudato. Interrogo il database per avere informazioni utili secondo le richieste del cliente, opero per aumentare le performance, sviluppiamo applicazioni...
- Cosa?
- Lavoro con i computer per fare cose in un'azienda! 
- Ah bene, senti io ho questo problema... 


Souce

mercoledì 13 luglio 2016

Partire e tornare a mangiare bagna cauda

Quando ho iniziato questo percorso lo scorso novembre non avrei mai mai mai immaginato dove mi avrebbe portato. Quando sono arrivata ad Ariano Irpino con una candidatura inviata il giorno prima della scadenza del bando, una incredulità di fondo quando mi hanno chiamato di sabato per fare il colloquio la settimana successiva, il viaggio della speranza passando per Foggia e finendo in una stazione dimenticata da dio in fondo ad una valle, in Irpinia, di cui ignoravo l’esistenza. L’incontro con un palermitano e un ragazzo di Como con cui ho condiviso caffè, risate e pausa pranzo, nell’ansia di non sapere cosa fare della propria vita e tirocini a metà, e domande “ma tu ci vieni davvero qui ad Ariano se ti prendono?”. E quel colloquio in cui sono riuscita ad infilare i libri e Un uomo della Fallaci, con un’attesa infinita che sono stata la penultima che tanto io e l’altro ragazzo restavamo a dormire lì, che come ci torno a casa? E a momenti non ci tornavo neanche il giorno dopo, che per fortuna il tipo mi convinse ad andare con lui in autobus fino a Foggia (autobus che subì un guasto e si fermò a pochi chilometri da Ariano), che c’era stata l’alluvione nel beneventano e i treni non passavano. La certezza che quel colloquio fosse andato malissimo, con la prospettiva di altre ricerche al pc e invii di curriculum e depressione. La telefonata in un venerdì pomeriggio che si mi avevano  presa e “Oddio mamma devo andare ad Ariano!” e nessuno ci credeva, sembrava talmente impossibile, che io stentavo a realizzare. Una settimana frenetica di preparativi e il viaggio verso sud con l’ansia a palla e il ciclo. Eppure…  eppure sono sopravvissuta a tre mesi di scleri, progetti, consegne alle cinque della mattina, weekend ad Ariano con il palermitano, che avevano preso anche lui, e gli altri reclusi, a base di pranzi e cene cucinati da noi, e serate al Black Rose, pseudo studio e compiti di inglese. Freddo, neve, colloquio a Roma con l’ansia a due milioni con il capo dei capi della mia azienda preferita tra quelle che finanziavano il corso, e quella per cui hanno scelto di candidarmi, che quasi non ci credevo che ero tra loro. E ancora non stentavo a rendermi conto quando ci hanno convocato per dirci che ci avevano preso. Che si saremmo andati a fare il tirocinio lì. Ci avevano prospettato Roma, Milano, Torino e poi invece mi dissero “Ehi tu Annachiara vai a Firenze” che sembrava una figata assurda.  E prima vai a Milano, poi non vai più a Firenze ma a Torino. Quattro giorni a Torino e “ehi chiudiamo il progetto, saluti e baci” e vai a Firenze.
E qui a Firenze sono stata benissimo, il tirocinio più entusiasmante che potessi desiderare, con un supervisor che ci ha tenuto a insegnarmi il mestiere e a farmi volare da sola, tra prove al cardiopalma con il tasto invio premuto con il cuore in gola e presentazioni su argomenti che a momenti “sono l’esperta italiana” come ci teneva a sottolineare il mio supervisor. Quegli “ottimo lavoro” e “Bravissima” che mi risuonano ancora nel cervello nonostante tutto. Spiegare al cliente il funzionamento di una query già dal primo giorno a lavoro, che dopo tre settimane di lettura e spostamenti ero ancora praticamente digiuna di tutto, con tanta forza di volontà e la consapevolezza che niente è impossibile. E sembra passato un secolo e invece solo qualche mese, da quel piovoso (o nevoso) sabato di marzo in cui sono sbarcata nella patria di Dante.  E sono felice di come sono andate le cose anche se la solitudine mi ha inghiottito le ossa e mi ha fagocitato il temperamento. Credo che la mancanza di persone con cui vivere Firenze fuori dagli infratti del mio lavoro sia la cosa che più mi ha penalizzato e distrutto.
E ora… ora si apre un nuovo capitolo e torno a mangiare bagna cauda prima di quello che credevo. So Torino aspettami, di nuovo!




lunedì 11 luglio 2016

Partenza

Montelupone, home
Lacrime silenziose segnano i confini
la mia partenza troppo a lungo 
rimandata
sopita sotto cumuli di responsabilità
svanita nell'angoscia del mondo
sommerso
gelata nei confini della soluzione
sedata sotto un cielo plumbeo
corretta
dai preamboli sgualciti dalla foga
 inghiottita dalla paura del rifiuto.



venerdì 1 luglio 2016

Fare come i castori

Sapevo che non sarei riuscita a cambiare le carte in tavola, perché in fondo è così che va, sono a fissare questo scorrere muto di fronte all’infinito e invece ho perso di nuovo, ho perso la motivazione che mi serviva per continuare a credere in questa cosa, questa scintilla che forse mi sono solo immaginata. Come a dire di aver perso di fronte ai frammenti sconnessi della mia immaginazione.
E allora devo trovare soddisfazione altrove, da altre parti, da altri contesti. Dal lavoro, pensando che la mia forza di volontà è davvero  una spinta potente. E dovrei davvero smetterla di dubitare delle  mie capacità, che non è vero che sono un fallimento totale, che non è vero che sono un’incapace. Eppure quel senso implacabile di orrore e sfiducia continua a colpirmi, continua a mietere vittime nella mia mente desolata. Sono io che perdo, eppure sono io che cedo le armi. E in realtà ho avuto l’ennesima dimostrazione che non faccio così schifo. Il mio supervisor in realtà me lo ripete dall’inizio di questo tirocinio, ma io continuo a dirmi che no, non è vero, eppure lui mi da una fiducia sconfinata, eppure lui è uno di quelli che crede in me. Ne è la prova l’ennesima presentazione davanti ai colleghi esperti della nostra azienda e i nostri capi. I complimenti quel “ottimo lavoro!”, “la presentazione era ottima”, “bravissima” che mi ha regalato prima, durante e dopo, mi hanno dato quella consapevolezza di non essere proprio un’incapace. I feedback sempre positivi, la felicità di non rimpiangere nulla. Io ci sono,  posso farcela, anche quando tutto sembra perduto. La mia tigna, la mia volontà ferrea di non essere un peso e di non deludere nessuno, quella propensione a non essere da meno e di non fregarmene del gruppo e di non stare con le mani in mano mi aiuteranno sempre, spero.
Anche se sono sempre bersagliata dai dubbi, dalla facoltà di mettere in discussione tutto, soprattutto me stessa e i miei risultati, quelli che dovrebbero fare la differenza.