Sono una persona che
rifugge tutto anche e soprattutto i complimenti, che non riesce ad essere
obiettiva con sé stessa, che si perde nei meandri delle sue argomentazioni
mentali che iniziano per lo più con “Ma io
non…”. Questo mi pone sempre in un atteggiamento dimesso e poco concorrenziale.
Quando si tratta di “vendersi”, nell’accezione in cui bisogna mettersi in
mostra, sottolineando i punti di forza
della propria personalità e delle proprie capacità, per me diventa una lenta
agonia, un annaspare alla ricerca di un appiglio. Davvero sembro incapace di
esaltare tratti di me senza cadere in comportamenti repulsivi e/o offensivi.
Sono il classico esempio del predico bene e razzolo male, anzi malissimo.
Quando si tratta di essere incisivi io devo essere spronata. Anche se in
generale basta iniziare, trovare la giusta motivazione. Alla fine sono in
ritardo, ma arrivo, faticando e sbuffando come un toro nella corrida, ma porto
a casa qualcosa. Perché sono cocciuta e tignosa e se mi decido arrivo alla
fine. Sono anche quella dell’ultimo secondo. Quella che si iscrive a qualcosa
ad un giorno dalla chiusura dei bandi, che se non ha l’adrenalina a fior di
pelle non mette il turbo, quella che vive l’attimo della consegna con l’ansia
di non riuscire a finire. Sono un caso disperato. I migliori esami li ho sempre
preparati a pochi giorni dalla data d’appello. Con lo stomaco sottosopra e
l’idea fottutissima di non farcela. E nonostante ripensamenti e arresti, sono
arrivata alla fine.
E tra un po’ inizio una
nuova avventura. Ho la stanza sottosopra, valigie aperte ovunque e quella
voglia di fuggire che mi gravita addosso. I miei non ci credevano neanche, mi
hanno guardata come un’aliena sulla soglia di un viaggio intergalattico, perché
in fondo io non sono nessuno e se non ci credono loro, chi deve crederci? Io,
forse, con quel sentore di fallimento a pochi passi da me, quella congestione
di paure e dubbi che non mi abbandona mai, quel profumo di sconfitta che mi si
appiccica alla pelle, perché in fondo per un’insicura cronica come me diventa
difficile il doppio lanciarsi senza paracadute. E se due anni fa mi
dibattevo nella consapevolezza di non
riuscire ad ingranare in quei maledetti sei esami che mi mancavano, sempre a
rigirarmi tra il malloppo di RF, e l’anno scorso mi dibattevo nella depressione post-erasmus
sfangando Micro e Nanoelettronica e gemendo con Compatibilità, quest’anno ho il
beauty-case mezzo pieno con una lista di cose da portarmi e l’ansia di dover
conoscere persone nuove, di nuovo, mettermi in gioco, sviluppare nuove
competenze e magari finalmente uscire dall’apatia che mi circonda.
Spero di avere ancora
tempo per le mie passioni primarie, per quel passatempo che non è un gioco, ma
l’ancora della mia sanità mentale in questi mesi, quel luogo virtuale che mi ha
salvato in tanto tempo di inattività, che mother non capisce, neanche si sforza
di afferrarne il peso e la portata e io ho smesso di cercare di spiegarmi.
Perché tanto sono parole al vento. Io basto a me stessa. Io sono quella che
sono. E se sono riuscita a infilare “Un
uomo” della Fallaci in un colloquio di lavoro da ingegnere, con annessa
discussione sul perché è uno dei miei libri preferiti, credo con una certa
presunzione di poter fare qualsiasi cosa.
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