A volte mi prosciugo
nella sensazione di non esserci, di aver dimenticato davvero cosa significa
star soli, spersi in un posto in cui neanche posso essere davvero me stessa,
perché sono costretta a sottostare alle regole di un’altra persona, nella casa
di un’estranea in cui non posso neanche utilizzare il mio bagnoschiuma
preferito. E seppur so che è solo per un periodo, che devo stringere i denti,
beh non ce la faccio. La soffro questa solitudine cristallizzata in momenti di
inconsistenza, la soffro terribilmente. E ringrazio immensamente il telefono,
il cellulare che è il prolungamento della mia mano perché mi sta salvando in
momenti che davvero non avrei creduto.
E poi ho l’ansia a due
miliardi, passo da stati di esaltazione ad altri di ansia liquida ad altri di
paura, con il panico che mi coglie alle spalle e la sensazione di soffocare. Il
mio lavoro mi sta entusiasmando. Perché per fortuna il mio supervisor è una
bravissima persona che mi stimola a dare il meglio, con la spensieratezza e la
giocosità tipica dei fiorentini, e l’aria di chi non ti guarda passivamente
scivolare davanti ai suoi occhi. Ci metto il massimo, iniziando ad abituare la
mia mente ad essere una dipendente di una multinazionale americana che si
occupa di Post-Sales Services. Ed è qui che tutto si complica, che nonostante
tutto non sono pronta per diventare adulta, per assumermi le responsabilità che
un lavoro così serio comporta. Ho paura di toppare ad ogni cosa, e mantengo
sempre un atteggiamento non committante, soprattutto per quanto riguarda cose
che non so. E ripenso con una certa nostalgia ai tre mesi trascorsi ad Ariano
Irpino, a quel mondo che mi ha formato e mi ha anche in qualche modo protetto,
che in un certo senso mi ha spinta ad andare avanti. E sono qui, cercando di
fare del mio meglio anche quando mi reputo una mezza calzetta.
E poi ho letto il discorso a
TED di Reshma Saujani, CEO e fondatrice di Girls who code in cui parla
proprio della mancanza di coraggio e sicurezza che affligge le donne quando si
confrontano con un lavoro, come quello del programmatore informatico che ha
bisogno di inventiva, di tentativi, di imperfezione e mi sono ritrovata a
pensare di quanto io stessa mi freni nei confronti di una situazione che
dovrebbe essere semplice.
“Programmare è un continuo processo fatto di prove ed errori, di
tentativi di inserire la giusta linea di codice al giusto posto, dove spesso
una parentesi in più o in meno segna la differenza tra successo e fallimento.
Il codice si rompe e si sgretola, e spesso servono molti, moltissimi tentativi
prima che arrivi il momento magico in cui ciò che stavi cercando di fare prende
vita. Programmare richiede perseveranza. Richiede imperfezione.”
Ed è vero che siamo noi
stesse a bloccarci, che non ci trinceriamo dietro l’incapacità di rischiare
perché la paura del fallimento vince su tutto, si impossessa della nostra
psiche paralizzandoci, evitando di buttarci nella mischia e finiamo così per perdere
il treno che ci passa davanti. Sto cercando di buttarmi alle spalle i dubbi e
le incertezze, ma è così maledettamente difficile superare la paura di fallire.
Spero di farcela, di
non arrendermi, di superare le mie insicurezze croniche, perché realizzarmi
professionalmente è ciò a cui aspiro di più.
Good coding.
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