lunedì 12 dicembre 2016

D’un tratto in un sentiero instabile

Un anno fa avevo superato il colloquio, che ancora non lo sapevo, ma mi avrebbe cambiato la vita. Ricordo il viaggio di ritorno da Roma verso l’Irpinia, con le lacrime agli occhi, perché ero fermamente convinta che quel colloquio fosse andato uno schifo. A me non avevano fatto nessuna delle domande scabrose che avevano fatto agli altri. Il mio colloquio era andato liscio… fin troppo. “No a me quello non l’ha chiesto”, “No non mi ha fatto parlare in inglese”. E non so se sia stata la mia sparata iniziale “No ho scelto ingegneria biomedica perché in televisione avevo visto un servizio sull’occhio bionico e oddio lo volevo progettare anche io” o le risposte giuste a domande innocue, o l’intervento sulla cookie policy, ma quel colloquio, al contrario di qualsiasi previsione è andato bene. 
E ora sono a Torino, a imprecare in tutte le lingue del mondo contro excel, che filiamo e disfiamo come la tela di Penelope, con quel modello che viene incrementato a colpi di martello, con la precisione di un fabbro. E sono stanca, inizio ad esserlo dopo aver corso come una matta per tutto l’autunno, con la voglia a mille, felice di contribuire a quel pezzo di banca, entusiasta e attiva. Eppure mi sento inutile, sento che nonostante tutto non sia servito a niente. I problemi si moltiplicano, gli orari si allungano, le responsabilità aumentano esponenzialmente. E sono esausta, e stressata e salto su con niente, vado nel panico solo perché mi sono tagliata un dito ieri sera. Ero da sola e ho iniziato a pensare al peggio, senza possibilità di salvarmi. Mi sono calmata dopo un secolo, a forza di ripetermi che sarebbe andato tutto bene. Ed è questo a fregarmi, la paura irragionevole di non farcela, di fallire. Sono sempre sul chi vive per chi mi trova in difetto, per mie mancanze vere o presunte, in una irrazionale spirale che mi conduce alla follia. Come sempre, come sempre non so come uscirne. Anche se sono fondamentalmente serena, con un equilibrio che non avrei mai immaginato di costruirmi qui a Torino. Eppure finisco a percorrere sempre gli stessi sentieri instabili di paura e dubbio, e non so come uscirne. 





sabato 3 dicembre 2016

Quando pretendi che cresca l'erba voglio

La vita che consuma le ossa, genera istanti sospesi in mezzo alla tempesta, dimenticati dalle incongruenze che seminano dubbi. Generare l’empasse è un atto inconsapevole, ingestito nel mondo che sfinisce le più recondite possibilità, cede sotto i colpi della malasorte. 
Certe sere che arriva quel debilitante senso di nostalgia, quel pesante e ignobile vuoto a perdere, quella agghiacciante sensazione di nulla cosmico. L’insostenibile perdita di realtà virtuali che abbracciano la nostra stessa intensità. Perdo tutte le distanze, perdo il contatto con la realtà, dimentico l’inevitabile. 
Sto fissa in un punto, immobile, quanto incerta, debole quanto stanca, inafferrabile quanto esacerbata. Cerco conferme che non arrivano, abbracci che esistono solo nei miei sogni, desideri inespressi nella convoluzione della mia esistenza. Cerco energie perse, consumate nel vano tentativo di catturare desideri saltellanti. Cerco inevitabilmente altre vie di uscita, gesti che hanno altri significati, altre vite, altre esistenze. Pretendo attenzioni che non riceverò mai.